Con l’ordinanza n. 22367 del 06.09.2019, la Cassazione afferma che, se l’imprenditore non prova l’iscrizione all’associazione datoriale firmataria del CCNL non dichiarato efficace erga omnes, il giudice può disapplicare tale contratto ed applicarne un altro, depositato in giudizio dal dipendente, più coerente con l’oggetto sociale dell’azienda.

Il fatto affrontato

Il lavoratore impugna giudizialmente il licenziamento irrogatogli, per superamento del periodo di comporto, al termine di un’assenza per malattia durata 237 giorni.
La Corte d’Appello accoglie la predetta domanda, sostenendo che al rapporto non poteva applicarsi il CCNL Confcommercio richiamato dall’azienda – che prevedeva un periodo di comporto pari a 180 giorni – dal momento che la società non solo non lo aveva prodotto in giudizio, ma non aveva neppure provato l’affiliazione a detta associazione di categoria.
A fronte di ciò, la Corte territoriale ritiene applicabile, invece, il CCNL Confimea – recante un periodo di comporto pari a 365 giorni – depositato agli atti dal dipendente e considerato conforme all’attività economica svolta dall’impresa.

L’ordinanza

La Cassazione – confermando la statuizione della Corte d’Appello – afferma, preliminarmente, che i contratti collettivi di lavoro non dichiarati efficaci erga omnes ai sensi della legge 741/1959, costituiscono atti di natura negoziale e privatistica e si applicano esclusivamente ai rapporti individuali intercorrenti tra soggetti che siano entrambi iscritti alle associazioni stipulanti.

Secondo i Giudici di legittimità, in mancanza della predetta condizione, il CCNL può ritenersi efficace laddove le parti abbiano fatto espressa adesione ai patti collettivi e li abbiano implicitamente recepiti attraverso un comportamento concludente.
A tal fine, però, non è sufficiente solo un richiamo formale del CCNL all’interno del contratto individuale o nelle buste paga dei dipendenti, essendo, invece, necessaria una costante e prolungata applicazione delle relative clausole ai singoli rapporti.

Su tali presupposti, la Suprema Corte ritiene immune da censure l’impugnata pronuncia e, conseguentemente, respinge il ricorso proposto dall’azienda, confermando l’illegittimità del licenziamento dalla stessa irrogato.

Fonte : Lavorosi A cura di Fieldfisher